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Luci spontanee da Cambridge fuori uso

A destra Boston, a sinistra la luna sovrasta gli edifici spenti dell'MIT. In mezzo, tra le due città, scorre il Charles River

A destra Boston, a sinistra la luna sovrasta gli edifici spenti dell’MIT. In mezzo, tra le due città, scorre il Charles River

Dove non è arrivato l’uragano Sandy ci ha pensato un banale guasto tecnico. La società elettrica, già in odor di multe salate per altre mancanze, ha affidato l’elettricità di Cambridge, Massachussets, a un relay difettoso mentre lavorava sulla linea principale.

E’ giovedì pomeriggio, sono al computer, la lampada all’angolo della stanza balbetta, resiste, si spegne. La torcia d’emergenza si fa notare. C’è luce a sufficienza per girare per casa, sono le 16.20, ma qui a Cambridge siamo già all’imbrunire. La verifica dà l’esito atteso: i vicini sono senza elettricità, il lampione è spento. E’ il fatidico power outage. Minacciato alla vigilia di Sandy, tutti pronti con provviste e illuminazione d’emergenza ad affrontare giornate senza frigorifero né luce, quella volta non arrivò, nessun albero abbattè qualche pericolante palo della luce. Stavolta il cielo è limpido, la luna quasi piena, non c’è vento. Senza Internet non posso continuare il lavoro in corso, riunisco le torce sul tavolo vicino all’ingresso, quella a carica manuale la infilo in tasca e mi incammino verso la metropolitana.

Nemmeno le 5 di sera e già è buio. Il traffico è congestionato e i fari delle auto sono l’unica fonte di illuminazione. Agli incroci ci si guarda fisso negli occhi, anche se a volte sono dei fanali fastidiosi, ma si inizia a percepire quanto si perda senza elettricità. Semafori, lampioni, il bar all’angolo, banca e palestra sono forzatamente bui. Cuoco e cameriere di un fast food sono seduti al tavolo del loro locale vuoto e guardano la vetrina al contrario come un grande schermo. Danno uno di quei film apocalittici. Chissà quale mostro è arrivato in città questa volta, di sicuro si è rosicchiato qualche cavo ad alta tensione. Le sirene in lontananza fanno da colonna sonora mentre arrivo a Central Square. La polizia si è messa di traverso su Mass Ave, non si passa. O meglio, passa solo l’autocisterna, ché forse più lontana sta dalla piazza congestionata meglio è. Chi ha potuto raggiungere l’uscita, salvo gli sfortunati negli ascensori, ha abbandonato il posto di lavoro. Tutto è blu o rosso, a intermittenza: l’unica fonte luminosa sono i lampeggianti della polizia.

In quegli istanti ad Harvard era in programma un confronto sulle elezioni presidenziali con i responsabili della macchina mediatica di Obama e Romney. Cancellato. All’MIT entrano in funzione i generatori d’emergenza per i servizi essenziali, ma il campus è al buio e ci sono persone negli ascensori.

Scendo alla metro. Le macchine dei biglietti sono spente, tornelli aperti, nessun treno sui binari, ma soprattutto mancano i rumori. Se arriverà, il prossimo treno non sarà annunciato. Decine di persone attendono fiduciose. Io non mi avvicino al binario, ma aspetto con loro. Sono curioso, voglio sapere se la linea rossa è operativa. Il treno alla fine arriva, stracolmo. I resoconti del giorno dopo parlano di ritardi incredibili per una metropolitana: c’è chi ha impiegato un’ora per un tragitto che normalmente dura 20 minuti.

Chi arriva nel blackout dall’altra parte del fiume, da Boston dove tutto funziona, sale le scale mobili ora immobili e sbuca in un crocevia che non ha mai visto così. Gente chiama a casa, al lavoro, cerca di rintracciare i propri cari, avvisare, chiedere spiegazioni. Sono 17mila le persone coinvolte da questo guasto.

Torno verso casa. Prenderò le torce e raggiungerò Enrica al suo ufficio. E’ pericoloso camminare lungo strade buie. Noto che la strada a Ovest della mia ha riacquistato colore, il grande cartello dei lavori in corso è acceso. Ma il ritorno alla normalità, pare, vale soltanto per una piccola fetta di Cambridge, il resto è ancora buio. Una signora chiede a un passante di poter fare una telefonata col suo cellulare, non viene ascoltata. Il prossimo sono io, mi fermo e l’accontento. Doveva chiamare il marito che, sì, si trova ancora dall’altra parte della città, bloccato. Pochi passi e mi si para di fronte sul marciapiede una donnona nera in pantofole, che gentilmente ma tradendo preoccupazione nella voce mi chiede se i treni siano in funzione: attende il rientro della figlia.

Bella socialità quella del power outage, forza a chiedere una mano, senza luce si è scoperti in qualche mancanza. Solo per gli automobilisti non è in fondo così diverso. Anzi, si può finalmente approfittare ad ogni incrocio senza aspettare inutilmente pedoni che non ci sono o il verde anche per proseguire dritti (girare a destra col rosso è possibile quasi sempre, salvo concorrenti da sinistra). Sarà la fretta, sarà che la mia torcia era fiacca, fattostà che a momenti mi investono mentre mi avvicino al confine della zona buia. Anche il ponte sul Charles River è nell’oscurità, ma qui è piacevole. Un fotografo piazza il cavalletto sulla balaustra e inquadra la luna, quasi piena e sospesa tra una Boston sfavillante e il buio (per due ore) quartiere della scienza targato MIT.

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